La Corte di Cassazione ha deciso che un processo lungo ben 9 anni non sarebbe dovuto essere avviato. Lieto fine per un uomo di 53 anni.
A volte capitano gli errori giudiziari, ossia le condanne di soggetti per reati per i quali, poi, è stata accertata l’innocenza. Contrariamente a quanto si possa pensare, tali errori sono comuni e possono verificarsi per motivi differenti.
Le vittime di un errore giudiziario possono essere costrette a scontare anni di carcere o a pagare ingenti somme a titolo di risarcimento danno, in realtà non dovute. Di recente, è divenuto emblematico il caso di un uomo di 53 anni, che ha sollevato una serie di perplessità sull’efficienza del sistema giudiziario italiano. Analizziamolo nel dettaglio.
Un uomo di 53 anni è stato assolto, dopo tre gradi di giudizio e nove anni di processi, dall’accusa di tentato furto di 1,10 euro da un parchimetro. C’è stato bisogno dell’intervento della Corte di Cassazione per statuire che, in realtà, il processo non sarebbe dovuto neanche essere avviato.
Dopo essere stato sorpreso mentre tentava di rubare pochi spiccioli da un parchimetro in strada, l’imputato è stato condannato in primo grado e, successivamente, in appello. I giudici della Cassazione, tuttavia, hanno emesso una sentenza che riabilita del tutto l’indagato, annullando senza rinvio.
Per gli Ermellini, infatti, ci sarebbe un mero errore tecnico, perché l’uomo è stato processato senza querela, che, al contrario, è ora necessaria anche per il tentato furto aggravato, in virtù della modifica avvenuta con la Riforma Cartabia.
La nuova normativa prevede che possa procedersi in assenza di querela solo se il furto ha ad oggetto un bene destinato a servizi di pubblica utilità, ai sensi dell’art. 625 del codice penale. Proprio su tale punto è stata costruita la difesa da parte degli avvocati dell’imputato, che, alla fine, sono riusciti ad avere il consenso della Cassazione.
Per l’accusa, il parchimetro era stato considerato autonomamente un bene pubblico, ma questa circostanza non era mai stata contestata esplicitamente durante i due gradi di giudizio dai Pubblici Ministeri, che avevano semplicemente eccepito la violenza sulle cose, una condotta che non è perseguibile in assenza di querela di parte.
Secondo la Corte di Cassazione, sarebbe stata necessaria la contestazione, da parte della Pubblica Accusa, della sottrazione di un bene destinato al pubblico servizio, ma non c’è mai stata perché l’esistenza dell’aggravante era stata sempre data per scontata. La Cassazione ha smontato tale tesi, sostenendo che il parchimetro non è esplicitamente indicato come un bene destinato al pubblico servizio e, dunque, c’è stata una grave violazione del diritto di difesa nei confronti dell’imputato, sia in primo grado sia in appello.
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