Si tratta di abuso di potere, nonché estorsione: la minaccia di licenziamento da parte del datore di lavoro può costituire reato.
In un contratto di lavoro vi sono clausole apposite che permettono di tutelare i diritti, nonché elencare i doveri sia da parte del datore di lavoro che del dipendente. Talvolta, le relazioni umane, soprattutto guidate da un profitto economico, possono portare una delle due parti ad avere atteggiamenti scorretti nei confronti dell’altro. A tal proposito, un caso lampante è quello del datore di lavoro che chiede al dipendente di fare di più di quanto stabilito nel contratto, al fine di trarne un beneficio a discapito dell’altra parte.
Che si tratti di straordinari non pagati o lavori per cui non si hanno le competenze, chiedere al lavoratore di svolgere tali mansioni senza il suo consenso è considerato dalla legge inaccettabile. In questo caso, lo stesso potrebbe infatti minacciare il dipendente di licenziamento, cadendo inevitabilmente nel reato di estorsione. Si tratta di una tematica complessa che per fortuna trova risposta più accurata grazie ad una sentenza di quest’anno della Corte di Cassazione.
Minacciare il dipendente di licenziamento costituisce un reato: la legge attuale
Di questi tempi si è molto trattato il concetto di mobbing, ossia una serie di atteggiamenti volti a sminuire, nonché intossicare un individuo sul posto di lavoro. Il mobbing perpetrato dal datore di lavoro, nel dettaglio, è spesso chiamato “mobbing verticale” o “bullismo organizzativo”. In questa forma, il datore di lavoro o il supervisore, esercita pressioni e comportamenti dannosi nei confronti di un dipendente. Talvolta però, tali atteggiamenti non sono volti al fine di far licenziare il dipendente, bensì a obbligarlo sotto minaccia a seguire indicazioni a lui favorevoli.
Il Codice Penale ha però stabilito che è reato di estorsione quello di chi “mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualcosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno” (art. 629 c.p.). Nel testo dell’articolo si parla chiaramente di minaccia alla persona; condizione che può correlarsi tranquillamente al reato di estorsione.
Con la sentenza n. 3724 di quest’anno, la Corte di Cassazione ha fornito importanti chiarimenti su questioni rilevanti. In particolare, ha affermato che il concetto di minaccia implica che spetta alla vittima del reato decidere come reagire alla minaccia stessa. Tuttavia, è fondamentale comprendere che se la risposta della vittima è diversa da quanto richiesto dal datore di lavoro che minaccia il licenziamento, si verificherebbe il danno ingiusto prospettato con la minaccia stessa, ossia la perdita del lavoro. In parole semplici, una volta ricevuta la minaccia, sta al dipendente scegliere se denunciare o meno. Tuttavia, se lo stesso non agisce e, nel contempo, rifiuta l’indicazione del datore di lavoro, questo lo porterebbe alla perdita del lavoro.
A tal proposito, la Corte ha sottolineato che una minaccia del genere costituisce un caso di estorsione. Ossia un reato in cui la vittima, di fatto, “collabora alla sua realizzazione, poiché la sua volontà è influenzata dalle minacce del datore di lavoro”.
In conclusione, che si tratti di ore di straordinario non pagate o abusi, accettare questa condizione significa andare a compromettere il proprio benessere psicologico. Infine, è doveroso precisare che in questo caso, chi si licenzia ha diritto alla NASpI. Licensiarsi per estorzione rientra infatti nelle dimissioni per giusta causa.